La Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari – PARTE I

Editoriale - Biblioteca Camera di Commercio Cagliari-Oristano
La storia economica della Sardegna trova nella biblioteca della Camera di Commercio di Cagliari Oristano uno scrigno prezioso di memoria e di tesori documentali.
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La Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari – PARTE I

La Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari - Parte prima

A cura di Sandra Pili

1. Premessa storica.

Alle soglie dell’Ottocento la Sardegna era fondamentalmente caratterizzata da un’organizzazione economico – sociale di tipo feudale; tale  sistema era il principale strumento regolatore del funzionamento dei rapporti di produzione e delle contribuzioni. I privilegi detenuti dai nobili e dal clero (giurisdizione feudale, immunità del clero), cui si aggiungevano quelli delle città regie, non consentivano lo stimolo alla produzione e rendevano altamente improbabile qualsiasi processo di accumulazione di ricchezza. 

Le terre, da coltivazione e da pascolo, erano godute collettivamente dalla popolazione del Regno con ovvie conseguenze quali lo sconfinamento del bestiame nei terreni coltivati (e le conseguenti liti tra agricoltori e pastori) e l’inefficiente razionalizzazione delle risorse agricole.

Il regime di comunione delle terre, vigente in Sardegna sin dal Medioevo (XI-XIII secolo), prevedeva un’annua partizione delle terre tra contadini e pastori. 

Il territorio di ogni villaggio del Regno veniva diviso in due parti. Una di queste, detta “viddazzone”, destinata alla coltivazione, veniva a sua volta ripartita fra i contadini del villaggio, mentre la seconda parte di terra (detta “paberile”) veniva lasciata al pascolo comune. Ogni anno la ripartizione dei terreni coltivabili costituenti la viddazzone veniva effettuata per sorteggio, e ciò comportava che ogni contadino sfruttasse quanto più possibile il terreno a lui spettante nell’anno, senza preoccuparsi di lasciarlo in buono stato, visto che era altamente improbabile che la stessa porzione di terreno gli fosse assegnata anche l’anno successivo. 

La comunione della terra oltre a provocare un eccessivo sfruttamento dei terreni da coltivazione, col loro conseguente graduale impoverimento, aveva un altro grave inconveniente: a causa della scarsezza del pascolo offerto dai prati naturali, molto spesso i pastori del bestiame tenuto al pascolo nei paberili facevano sconfinare le proprie mandrie nelle viddazzoni, poiché queste non erano recintate ed era difficile controllare che non venissero invase.

Da questa situazione aveva origine la secolare lotta tra agricoltori e pastori, la cui principale causa si può identificare nel sistema feudale, che non concedeva la stabilità sui fondi coltivati ai contadini e inoltre vessava ogni singolo contadino e pastore con i tributi mantenendo l’isola in una situazione di arretratezza.

Inoltre, il fatto che i contadini non fossero proprietari delle terre che coltivavano e che la porzione di terra comune coltivata fosse assegnata mediante il sistema del sorteggio soffocava ulteriormente ogni probabile tendenza all’innovazione e al miglioramento dei sistemi di conduzione agraria.

Se la produttività agricola risultava mortificata lo era sicuramente almeno altrettanto quella artigiana e manifatturiera. Il lavoro artigiano era disciplinato dai Gremi, associazioni di mestiere storicamente comparse sotto forma di istituzioni religiose che avevano col tempo acquistato il favore o il tacito consenso del Governo, ed anche, per dirla con le parole della Reale Società, “una forma di politica esistenza, per quell’autorità che esercitano sugli individui appartenenti al loro corpo e quelli che vogliono accingersi a fare cose che appartengono ai rispettivi loro mestieri”. Queste associazioni, concessionarie dei privilegi governativi connessi all’esercizio delle professioni, restie ad ogni provvedimento che avesse potuto intaccare le prerogative dei congremiati, penalizzavano in misura significativa “l’ingentilimento” delle arti, rappresentando un ostacolo insormontabile all’introduzione di qualsivoglia innovazione.

La Sardegna era inoltre segnata in maniera significativa da malattie spopolatrici come il vaiolo e la malaria, diffuse notevolmente a motivo della stessa conformazione fisica dell’isola, ricca di acquitrini, paludi, e zone malsane, e a causa delle frequenti carestie. La popolazione era largamente analfabeta, sia per il fatto che la miseria e la povertà diffuse rendevano impossibile le spese per l’istruzione, sia perché non esisteva un vero e proprio sistema scolastico, ma la diffusione dei basilari rudimenti era lasciato alla cura del clero. Inoltre non esisteva nel Regno un sistema di comunicazione efficiente, e questo era la causa principale dell’isolamento vissuto dalle popolazioni residenti soprattutto nell’entroterra, della difficoltà negli scambi commerciali e della diffusione di idee e novità all’interno del Regno.

L’isolamento rendeva anche difficile la formazione di una coscienza comune del popolo sardo e le posizioni strategiche nell’organizzazione statale che faceva capo a Torino erano detenute da funzionari piemontesi.

Il Governo Piemontese, dal 1720 in possesso dell’isola, non aveva modificato la situazione complessiva che caratterizzava la Sardegna, che era praticamente la stessa vigente nell’isola dal Medioevo. 

I Monti Frumentari e i Monti Nummari, principali organismi istituiti dal Governo Piemontese al fine di fornire credito agrario ai contadini, onerati dai tributi, e porre così un concreto argine a quella che era divenuta la vera e propria piaga dell’usura, non fornivano una concreta risposta all’esigenza di rinnovamento dell’intero sistema agrario, che oltre che di istituti di aiuto, aveva principalmente bisogno di una riforma giuridica, capace di creare una classe di proprietari terrieri e conseguentemente dei forti incentivi all’introduzione di metodi razionali e sistematici di coltivazione.

I tentativi di riforma posti in essere dal Governo Sabaudo mostrarono, nel periodo tra il 1789 ed il 1799, tutti i loro limiti. La miseria sofferta in Sardegna nel decennio 1783-93, la permanenza del sistema feudale, il mancato funzionamento degli Stamenti, portarono ad un movimento di rivolta senza precedenti nella storia sarda. Le note vicende relative ai moti antifeudali e antipiemontesi e alla loro feroce repressione da parte del Governo piemontese condussero, all’inizio dell’Ottocento, ad una situazione economica disastrosa.

Il progetto di riforma del Governo Sabaudo mostrò, nel periodo fra il 1789 e il 1799, tutte le proprie contraddizioni. Infatti, i provvedimenti posti in essere durante i primi sessanta anni di Amministrazione Piemontese miravano per lo più ad “aggiustare” gli istituti agrari isolani, senza però seguire alcun progetto complessivo e organico che potesse fungere da binario per una linea di politica economica volta alla rinascita.

La Sardegna, storicamente caratterizzata da un’economia agro-pastorale in forte declino, aveva bisogno dell’introduzione di nuovi e radicali provvedimenti per rilanciare quello che era il suo primario e fondamentale settore di sussistenza: l’agricoltura. Solo in seguito all’attivazione di questo prioritario settore sarebbe stato possibile predisporre un’azione tesa al potenziamento dei commerci, allo sviluppo industriale e manifatturiero.

L’idea fisiocratica della terra come principale ricchezza di uno Stato ben si adattava al tentativo di risanamento di un’isola che aveva quasi esclusivamente nella terra la principale fonte di sostentamento. Una politica di sviluppo mirata al potenziamento del settore agricolo quale principale molla propulsiva dello sviluppo economico del Regno avrebbe potuto costituire il punto nodale di una serie di politiche di interventi volte all’attivazione dei commerci e dei settori manifatturiero e industriale. 

In questo contesto maturò con forza la convinzione che fosse quasi indispensabile l’istituzione di un organismo con finalità di studio teorico e di risoluzione pratica dei problemi del Regno, che avrebbe potuto assolvere alla funzione di diffondere consigli in campo agrario, relativi agli aspetti tecnici della coltivazione, predisporre degli studi e degli esperimenti tendenti all’avvaloramento pratico dei suggerimenti diffusi e che fosse costituito dalle persone maggiormente competenti del Regno, in campo agrario ed economico. 

Un’istituzione tanto qualificata avrebbe potuto svolgere il delicato compito di consulenza al Governo, essere ausiliaria e complementare dell’azione di quest’ultimo, e inoltre avrebbe potuto introdurre in Sardegna quei fermenti culturali, i “lumi” del secolo razionalista, che nel resto dell’Europa si erano già sviluppati e che avevano determinato dei grossissimi cambiamenti, non solo riguardo alle ideologie, ma anche riguardo ai metodi e agli strumenti di lavoro, più razionali ed efficienti e comunque mirati all’ottenimento di una sempre migliore economia di tempo e di lavoro e a una qualità superiore del prodotto.

Un primo pensiero sulla creazione di una tale istituzione avvenne già alla metà del 1700 dal Ministro Bogino, ma il disinteressamento regio fece fallire il progetto. Un’idea simile venne riproposta alla fine del ‘700 al Viceré Conte Revel di S.Andrea dal Ministro Graneri, il quale “mediante l’aggregazione a detta Società di persone distinte dei ceti militare ed ecclesiastico”, mirava a far risorgere “l’agricoltura, la più utile di tutte le arti, dallo stato di avvilimento e di umiliazione in cui purtroppo è rimasta in questo Regno”; ma tale proposito rimase mero intento.

Dopo circa un decennio, l’allora Viceré Carlo Felice riprese l’innovativa idea dell’istituzione di una dotta Accademia, non solo letteraria ma pratica e divulgatrice delle scoperte, organo propositore delle riforme da operare nel settore agrario, industriale e commerciale, al fine di una rinascita economica dell’isola di Sardegna, e lo portò a compimento con l’istituzione della Reale Società Agraria.

 

2. Istituzione e regolamento della Reale Società Agraria 

In data 14 luglio 1804 il Re di Sardegna di Cipro e Gerusalemme, Vittorio Emanuele I, stabiliva, dietro consiglio del fratello Carlo Felice, nella città di Cagliari una Società Agraria “ad esempio d’altre consimili, che si resero illustri presso le più colte Nazioni”. 

Le Accademie agrarie, Società agrarie e le scuole d’agricoltura nate precedentemente, e che costituiscono il modello sul quale viene improntata la Reale Società, possono essere correttamente considerate figlie della dottrina fisiocratica. Il pensiero da esse profuso mirava in primo luogo al superamento del mercantilismo, che ha alla base della politica economica dello Stato la volontà del Principe, espressa nel calmiere, nel dazio e nelle proibizioni, e in secondo luogo alla diffusione delle idee fisiocratiche, le quali identificano la prima fonte di ricchezza nella terra, che appartenendo a tutti dà a ognuno il diritto di esprimere il proprio desiderio verso chi governa lo Stato.

Alla società venne conferito il titolo di Reale Società Agraria ed Economica ed il compito di “destare l’industria, promuovere l’agricoltura e rettificare quei difetti che in essa esistono onde trarre maggior profitto di un suolo de’ più feraci”. I membri costituenti avrebbero dovuto “possedere quello spirito di emulazione che tanto giova alle utili scoperte” in modo da approfondire le conoscenze della fisica e delle scienze naturali. 

La Società, avrebbe dovuto “consacrare i suoi studi e fatiche a beneficio del pubblico, ed a perpetuo onorevole ornamento della Nazione”. 

Sempre in data 14 luglio 1804 venne approvato il progetto di regolamento, il quale disponeva che la Società letteraria avesse il proprio nucleo organizzativo nelle persone del Presidente, del Vice Presidente, del Segretario, del Vice Segretario e del Tesoriere. Tali cariche erano disciplinate ampiamente dallo Statuto, che caratterizzava in maniera chiara i diritti e i doveri di ognuna di esse. 

Il Presidente aveva il dovere d’intervenire a tutte le riunioni della Società, il diritto di aprire le sessioni di lavoro e di formulare tutte le proposte che avesse giudicato più opportune, era il solo membro legittimato a riunire l’Accademia per le giunte straordinarie e aveva il dovere di regolare il buon ordine delle sedute. Era il depositario del sigillo e firmava gli atti della Reale Società e le “Patenti” che venivano inviate per notificare la nomina a socio. Aveva il compito di rassegnare al Governo i progetti (“Piani”) che l’Accademia intendeva sottoporre all’approvazione regia e aveva il dovere di sollecitarne l’approvazione. La carica di Presidente aveva durata perpetua.

In assenza o impedimento del Presidente, il Vicepresidente “sottentrava interamente negli stessi carichi e onorificenze, nessuna eccettuata”. La carica di Vicepresidente aveva durata annuale.

Riguardo all’ufficio di Segretario (e di Vicesegretario), l’Accademia, considerata l’importanza di tale ruolo, aveva il dovere di nominare una persona che riunisse all’assiduità di lavoro la facilità nello scrivere e la piena conoscenza delle materie da trattarsi in ambito accademico. 

L’elezione dei vertici (Presidente, Vicepresidente, Segretario, Vicesegretario, Tesoriere) spettava a tutto il corpo societario riunito, tramite scrutinio segreto e doveva essere poi rassegnata al Governo per l’approvazione. 

I soci costituenti il corpo organico e pulsante della Reale Società venivano divisi in classi: i Soci Ordinari, i Soci Onorari, e i Corrispondenti; quest’ultima classe suddivisa, a sua volta, in Soci Corrispondenti Ordinari e Soci Corrispondenti Onorari. Inoltre era prevista l’aggregazione di una classe di “pratici” di Cagliari.

Per la classe dei Soci Ordinari, il regolamento prevedeva che fosse inizialmente composta di trentasei membri. Le “qualità necessarie” per divenirne membro erano ben delineate dallo statuto, che prescriveva la “onoratezza del Soggetto”, i “cogniti di lui talenti”, l’amore e l’impegno per il bene pubblico. Inoltre “per quanto sarà possibile si procurerà che siano facoltosi e possidenti”; quest’ultima caratteristica richiama un elemento fondamentale relativo alla scarsezza di risorse finanziarie (che caratterizzò l’esistenza delle Reale Società), per colmare la quale si rivelava indispensabile l’associazione di persone facoltose, in grado di contribuire oltre che con le proprie competenze anche economicamente all’attività accademica.

Nella classe degli Ordinari, oltre ai trentasei membri previsti e al Presidente, Vicepresidente, Segretario e Vicesegretario, venivano nominati sei soci ordinari “nati” (di diritto) “sia pel decoro della Società che per trattarsi di Soggetti illuminati e distinti”, aventi la facoltà “di assistere a tutte le sedute dell’Accademia in qualità di membri ordinari, senz’obbligo però di fissamente intervenirvi”. Questi erano l’Arcivescovo di Cagliari, il Reggente della Reale Cancelleria, il Segretario di Stato e di Guerra, l’Intendente Generale, l’Avvocato Fiscale R. Patrimoniale, il Censore Generale.

Nella classe degli Onorari veniva previsto di inserire quelle persone di “qualità”, ritenute “convenienti” per il decoro e per l’interesse della Reale Società.

I Soci Corrispondenti (divisi anch’essi in Ordinari e Onorari) dovevano possedere le stesse “qualità”, e dovevano essere eletti con le stesse modalità, degli ordinari e onorari non corrispondenti. Costoro, presenti presso tutte le popolazioni del Regno, avevano lo scopo di divulgare tutti gli “utili lumi” che l’Accademia avesse stimato di adottare nell’Isola e di promuovere la costituzione di Società corrispondenti o filiali della Reale Società Agraria.

La classe dei Corrispondenti avrebbe costituito un tessuto capillare d’informazione e d’azione importantissimo. Tramite questi soci la Reale Società avrebbe potuto conoscere le diverse esigenze e i diversi problemi di ogni zona della Sardegna per predisporre, con pertinenza, le soluzioni e i progetti maggiormente consoni. Ed è proprio per questa funzione di raccordo con le diverse zone del Regno, spettante alla classe dei Corrispondenti, che nel regolamento veniva previsto di dichiarare soci corrispondenti “nati” i Censori Diocesani nella classe dei Corrispondenti Onorari.

Importantissima era anche l’istituzione della classe aggregata di pratici (di Cagliari e dei villaggi vicini), al fine di fornire consigli e opere pratiche alla Reale Società. Della classe entravano a far parte tre ortolani, tre verzieri, tre vignaiuoli, tre coltivatori di grano e dei “frutti maggiori”, e tre pastori. Il regolamento lasciava alla discrezione dell’Accademia l’accrescere il numero dei componenti la classe.

I soci avevano una carica perpetua, ma era previsto il decadimento dall’incarico in caso di assenza prolungata per oltre quattro anni o in caso di mancata corresponsione, per un anno, della contribuzione dovuta.

Le contribuzioni annualmente versate dai soci (tre scudi gli ordinari, sei scudi i corrispondenti e gli onorari) costituivano la dotazione accademica, che avrebbe dovuto essere impiegata nell’acquisto dei migliori libri di economia, negli esperimenti, nel pagamento dell’affitto della casa, quando l’Accademia non ne avesse avuto una propria, e dei terreni quando ne fosse stata sprovvista; nell’acquisto degli strumenti d’agricoltura ed arti “di moderna invenzione”, e dei modelli di quelle macchine inventate per qualcuno degli “oggetti” di cui la Società doveva occuparsi; nella paga dei custodi della casa e dei terreni, qualora non si fosse riuscito a trovare qualcuno che potesse gratuitamente addossarsi l’incarico di custode, non essendo previsto per regolamento altro stipendio che quello del Segretario; nelle spese delle stampe per la rapida divulgazione delle scoperte accademiche nel Regno, o nella paga degli amanuensi in aiuto del Segretario. Inoltre venivano proposti dei premi per l’impiego di qualche fondo sopravanzato, o per dissertazioni scientifiche, o per gli autori di qualche “utile esperimento”.

Il regolamento organizzava puntigliosamente anche le adunanze accademiche, che si distinguevano in pubbliche e private.

Alle adunanze private, da tenersi ogni giovedì, dovevano partecipare il Presidente, il Segretario, e dodici membri eletti a turno fra gli ordinari, senza esclusione degli altri che avessero voluto intervenirvi. In dette adunanze si dovevano trattare tutti gli argomenti e gli affari di competenza della Società: leggere le corrispondenze, scrivere le risposte ed esaminare le memorie presentate dai soci, per valutarne l’utilità, prima di rimetterle all’analisi dei due Censori. 

Questi ultimi venivano eletti fra i membri ordinari, “due de’ più dotti e accorti”, e avevano il delicatissimo compito d’analisi delle memorie presentate all’Accademia, onde non venissero lette in pubblico che quelle giudicate degne “o per l’argomento, o per la condotta, o per la locuzione”. 

Erano previste quattro adunanze pubbliche da tenersi ogni tre mesi nei giorni stabiliti dalla Società, nel salone della Regia Università con facoltà al pubblico d’intervenirvi. Era prevista la lettura in esse di una o più dissertazioni fra quelle che, nel frattempo, fossero state presentate, esaminate e giudicate degne di essere lette al pubblico.

Inoltre era prevista nella prima domenica del mese di settembre (che come data iniziale dell’anno d’agricoltura, lo era anche dell’anno accademico) la pubblica e solenne adunanza, alla quale oltre il corpo intero della Società, sarebbe intervenuto il Viceré. Nell’adunanza il Presidente doveva rendere conto al pubblico dei lavori fatti dalla Società nell’anno concluso. Doveva inoltre predisporre una relazione per quelle scoperte o lavori che fossero stati giudicati degni di premio.

La Reale Società non avrebbe aspirato ad avere “alcuna benché piccola parte di giurisdizione, o di foro privilegiato”; anzi, rispettosamente lasciando libero il naturale corso alla giustizia ordinaria, avrebbe volto tutta l’attenzione alla scoperta “di quei mezzi che più conducano al felice conseguimento del fine per cui è istituita”.

I fini venivano elencati negli articoli conclusivi del regolamento, il quale disponeva che gli “oggetti” di cui avrebbe dovuto occuparsi principalmente la Società fossero l’incoraggiamento dell’agricoltura e dell’industria nazionale. 

L’incentivazione di questi settori sarebbe dovuta avvenire tramite la distribuzione di premi, a letterati e artisti, che “fomentano l’emulazione” e “promuovono utilmente il genio nelle scienze”. L’Accademia disponeva perciò di destinare, dai propri fondi, dei premi a chi avesse fatto qualche “vantaggiosa” scoperta in uno dei campi cui essa volgeva il proprio interesse, o a chi, in una dissertazione, avesse risposto a qualche “utile quesito”

Si consentiva inoltre, a chiunque avesse voluto, di consegnare, in una “bussola” alla porta dell’Accademia qualunque scritto, o dissertazione sottoscritta, o con epigrafe.  Qualora questo scritto fosse stato riconosciuto degno di essere letto al pubblico, ne sarebbe stato avvisato l’autore, e sarebbe stato tenuto buon conto del merito acquistato “per averlo presente alla prima vacanza di qualche posto accademico”.

In data 28 e 31 gennaio 1805 in seno all’Accademia venne decisa la divisione della stessa in quattro sezioni, due delle quali da ripartirsi in classi; la prima Sezione istituita era quella d’Agricoltura (divisa in due classi, d’Agricoltura e di Pastorizia), la seconda di Commercio (divisa in classe di Commercio Interno e classe di Commercio Estero), la terza era d’Arti e Manifatture; la quarta riguardava gli Altri Oggetti d’Economia e di Industria Nazionale.  

In seguito però (in data 21 luglio 1817), a motivo dello “scarso numero di membri conferenti” alle riunioni, l’Accademia deliberò di dividersi in due sole sezioni, di Agricoltura e di Economia Civile. 

Vi fu un altro importante avvenimento, a livello organizzativo, nel 1845: l’Accademia chiese l’autorizzazione governativa per trasformare la Commissione Enologica creata al suo interno nel 1844, in una Commissione permanente sotto il nome di Sezione Enologica della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, allo scopo di incentivare il commercio dei vini nazionali, migliorarne la qualità, sviluppare qualitativamente e quantitativamente questo ramo di ricchezza nazionale. Il Governo concesse un mese dopo l’autorizzazione. 

 

3. Il programma della Reale Società

Il discorso inaugurale della Reale Società Agraria ed Economica, tenuto dal segretario Lodovico Baille rappresenta sicuramente il nucleo del programma d’azione cui l’Accademia avrebbe cercato di fare fedele riferimento nel corso della propria esistenza.

Il Baille esordiva con un’analisi delle cause d’arretratezza dell’agricoltura: viziati sistemi di coltivazione, difetto di economia rurale, imperfezione degli strumenti agricoli, debolezza dei buoi, coltivazione dei generi agricoli effettuata senza tenere conto delle diverse qualità dei terreni, e faceva dovere dell’Accademia di “analizzare le diverse terre e illuminare i villici sul modo di rendere più soffici le compatte, e meno sciolte le arenose, sul metodo di concimarle, sui sistemi coi quali ogni coltivazione deve eseguirsi, sulle diverse affinità dei semi colle diverse qualità delle terre”. 

Era necessario il rinnovamento di mezzi, metodi e strutture agricole, che avrebbe potuto realizzarsi solo se accompagnato da un’appropriata propaganda di istruzione in materia agraria fra i contadini. Inoltre, siccome i lavori agricoli esigevano “il concorso della pastorale e della metallurgica”, si rivelava indispensabile un intervento volto a migliorare sia le razze bovine sia gli utensili (aratri, carri, vomeri e zappe).

Il Baille, proseguendo, poneva l’accento sull’importanza dello sviluppo della pesca, della caccia, della pastorizia (occorreva migliorare le qualità delle lane e dei formaggi isolani per una maggiore competitività con i prodotti esteri) e delle manifatture (principalmente quelle che interessavano la lavorazione di lino, canapa, lana e cotone); per meglio divulgare arti e mestieri, occorreva incentivare “con l’onore e col premio, gran motori dello spirito umano”, l’estro e le capacità isolane. 

Bisognava poi “avere sempre sott’occhio lo stato della popolazione del Regno. Persuasi che nell’aumento della medesima sta riposto il nerbo principale della politica felicità, ogni cura dée rivolgersi far si accresca annualmente e rapidamente”. L’Accademia si proponeva di combattere le cause dello spopolamento e di migliorare le condizioni di vita, insalubri nella gran parte della Sardegna, sia a causa della sua natura fisica, ricca di zone umide e pantanose, sia a causa delle condizioni igieniche delle abitazioni, ed evitare così le morti dovute a malattie epidemiche e contagiose, frequentissime nell’isola. Inoltre andava “perseguito” l’ozio, “causa spopolatrice morale”, avviando al lavoro gli “oziosi” validi e robusti, e facilitando il sostentamento dei veri bisognosi, come invalidi e anziani, con la creazione di ospizi e di strutture analoghe, nelle quali magari far effettuare qualche lavoro di pubblica utilità.

Il Baille poi, premettendo che, “tolta la coltura e la morale, mancano i cardini dell’armonia sociale”, trattava la formazione dell’individuo sotto il duplice aspetto di “educazione del fisico” e formazione morale. Riguardo alla cura “del fisico”, veniva sancito il principio fondamentale secondo cui ogni uomo, di qualunque età, ha il diritto all’assistenza medica. Il diritto alla salute poteva essere tutelato preservando la salubrità di aria, cibi, bevande e garantendo migliori condizioni igieniche negli ambienti lavorativi di chirurghi, medici e “speziali”. Inoltre occorreva predisporre un programma di prevenzione medica, al fine di debellare le malattie dell’infanzia, e altre gravi patologie, tra le quali il vaiolo. 

L’educazione morale “ha da noi da esigere tanto maggior cura ed attività, quanto più sublime è l’oggetto a cui si dirige, cioè di formare l’animo umano alla virtù, onde l’uomo sia un membro della società utile a se stesso, utile allo Stato”. Il Baille, consapevole della fondamentale importanza dell’istruzione quale molla propulsiva indispensabile per lo sviluppo, proponeva l’istituzione di “scuole normali” aperte a tutti, affinché tutta la popolazione apprendesse a leggere, scrivere e conteggiare, e di scuole specializzate per artisti (disegno, architettura), oltre che scuole di teologia e di giurisprudenza, in grado di preparare competenti “Pastori spirituali” e “Magistrati”. Inoltre auspicava l’istituzione di un corso di economia civile aperto a tutti. 

Ma la molla fondamentale che poteva accrescere la popolazione era lo sviluppo dell’industria nazionale secondo le leggi del libero commercio. 

Il pensiero della Reale Società, nel corso di tutta l’esistenza, sarebbe stato improntato ai fisiocratici francesi, ai Georgofili di Firenze e a economisti come Pietro Verri e Cesare Beccaria, sostenitori della libertà nel commercio. 

Il Verri nelle sue “Meditazioni di Economia Politica”, partendo dal presupposto che i prezzi all’interno di un mercato tendono ad assumere uno stesso livello, osservava come due diversi mercati, non divisi da barriere doganali, assumessero l’aspetto di un unico mercato, all’interno del quale i prezzi propendevano ad avere gli stessi valori. Le barriere e i vincoli doganali erano la causa delle fluttuazioni dei prezzi, delle carestie indotte dalle speculazioni, dannosi effetti che avrebbero potuto essere eliminati con l’abolizione delle restrizioni e con la realizzazione della piena libertà commerciale.

I Georgofili, associati sin dall’8 settembre 1806 alla Reale Società, sostenevano che una produzione agricola depressa (come quella che caratterizzava la Sardegna) non andasse aiutata dai dazi, ma occorresse intensificare la produzione, sfruttando l’iniziativa privata e le ricchezze produttive del suolo, utilizzando concimazioni più razionali per produzioni di maggior rendimento. 

Il programma della Reale Società faceva però un distinguo fra la libertà di commercio interno ed estero. Mentre all’interno della Nazione era auspicabile l’abolizione di ogni dazio, privilegio e limitazione, alla circolazione dei beni, riguardo al commercio estero chiariva come, qualora le importazioni avessero ecceduto le esportazioni, sarebbe stato auspicabile legittimare qualche restrizione al commercio, e ciò in base al principio che ogni Nazione dovesse dipendere il meno possibile dalle altre: “canone invariabile della scienza economica secondo cui una Nazione dipenda dalle altre in tutto ciò che si appartiene alla vita naturale e civile il meno che sia possibile, e che il meno che si possa sia debitrice d’ogni altra”. 

In effetti la paura che il pagamento di ingenti importazioni portasse lo Stato al tracollo economico, induceva l’Accademia ad avallare l’idea di alcune limitazioni, quali elevati dazi all’importazione di beni di lusso e all’esportazione di beni e materie prime prodotte nel Regno, che, lungi dal considerarsi come dannose al commercio, ne consentivano il regolare svolgimento. 

Il discorso si concludeva con l’idealizzazione della verosimile futura realtà di una Sardegna sana, colta, felice e prospera; che avesse composto le liti plurisecolari tra agricoltori e pastori; caratterizzata da un’agricoltura razionale, migliorata dalla proprietà privata, dagli incroci di bestiame, dalle nuove attrezzature, e da una pastorizia florida, in grado di fornire lane e formaggi di alta qualità; dotata di vie di comunicazione efficienti e numerose; con un commercio interno ed estero florido; con città solide, igieniche e ordinate; che avesse raggiunto un pieno sviluppo delle manifatture e dell’industria nazionale; il Baille immaginava e diceva con enfasi: “quest’isola insomma per lunghi secoli negletta è già tornata all’antico suo splendore…… la Sardegna è divenuta la prima isola del Mediterraneo”.

 

4. L’attività della Reale Società Agraria ed Economica

La Reale Società iniziò ad operare nel 1805 e di fatto cessò di funzionare alle soglie del 1860 (l’ultima memoria porta la data del 15/09/1859). All’Unità d’Italia l’Accademia passò le consegne alla Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Cagliari.

L’istituzione della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari voluta dall’alto del potere Regio, risponde ad una esigenza comune ad alcune nazioni europee dell’epoca: quella di fornire risposte valide per incentivare lo sviluppo economico, senza creare sconvolgimenti sociali. L’eco della rivoluzione francese aveva portato in Europa nuove idee e principi che anche in Sardegna avevano prodotto dei disordini sfociati nel sangue. Molti patrioti sardi morirono e tanti furono costretti all’esilio. Ma il loro pensiero produsse molti effetti quali la diffusione della consapevolezza, nel popolo sardo, della necessità di riforme concrete volte allo sviluppo dell’isola; nei detentori dell’antico potere questa nuova consapevolezza del popolo sardo produsse il timore di sconvolgimenti dell’ordine costituito. 

Le successive conquiste geografiche e la diffusione dei principi rivoluzionari ad opera della potenza francese, sotto Napoleone, che costrinsero all’esilio in terra sarda i sovrani piemontesi, probabilmente costituiscono un altro tassello per la comprensione dell’interessamento, dall’alto del potere piemontese, allo sviluppo di una terra fino ad allora considerata come marginale nel complesso del territorio del Regno. 

L’Accademia propugnava attivamente la diffusione di “lumi e cognizioni” nel Regno”, ma col terrore di perdere privilegi e prerogative che da secoli appartenevano ai singoli soci; era costantemente combattuta tra “vecchio” e “nuovo”; probabilmente è questo lo spirito del tempo, incarnato nello stesso Re Carlo Albero, liberale fino ad attuare l’abolizione dell’anacronistico istituto feudale, riformista “convinto, nel senso migliore e più progressista della parola” che viene dipinto dal Loddo Canepa come una “Figura Amletica, che impersonava, anzi viveva il tormentoso contrasto del suo tempo tra il vecchio e il nuovo”, ma che cercava di realizzare  il benessere della Nazione, studiandone i problemi, i bisogni e i rimedi in una visione progressista e quindi, tutt’altro che retrograda, dei nuovi tempi.

Sul monarca istitutore Carlo Felice invece esistono pareri molto contrastanti; Felice Cherchi Paba lo definisce come un ferocissimo reazionario cui erroneamente siano stati attribuiti meriti per riforme, che erano tali solo di nome, ma non nella sostanza. Alfredo Pino Branca individua nella sua figura una connivenza, e un conflitto, del tradizionalismo dei vecchi tempi, con lo spirito rivoluzionario e innovatore che i nuovi tempi portavano. Giovanni Siotto Pintor ed Ernesto Pontieri gli attribuiscono buone doti di uomo di governo (avvedutezza, sagacia). 

Riguardo alla relazione che legava questo Sovrano all’Accademia, si può dire che questa fu molto intensa, dato il particolare favore e la totale fiducia che il Monarca le concesse.

Non è semplice tracciare una sintesi dell’operato accademico; per farlo occorre innanzitutto tenere conto del fatto che non tutti i progetti hanno conosciuto una realizzazione governativa. Esistono molte idee e molti spunti che sono rimasti sulla carta. Si cercherà, nel prosieguo del contributo, di elencare i risultati ottenuti dall’azione accademica, evidenziando lo spirito propositivo che ha animato la Reale Società durante la sua esistenza e che può essere compreso pienamente dalla lettura delle memorie.

L’Accademia cessò di diritto l’attività nel 1862, con l’istituzione della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Cagliari, alla quale lasciava in eredità il suo prezioso patrimonio di atti e scritti, che attestavano la pulsante vitalità di quest’istituzione, la quale aveva cercato, nei limiti del difficile e travagliato periodo storico, di portare a termine il compito del rilancio dell’economia isolana, cercando di valorizzare al meglio le potenzialità inespresse dell’isola, ponendo come obiettivo primario dell’azione quello di portare il Regno di Sardegna al livello degli “Stati di Terraferma”. Questo compito sarebbe stato svolto, dopo il 1862, dalla Camera di Commercio, che, facendo tesoro dell’opera della Reale Società, avrebbe costituito il punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo economico sardo, nel contesto Unitario.

 

Il prezioso repertorio documentale della Reale Società Agraria ed Economica è conservato nell’Archivio della Camera di Commercio Industria, Arti e Artigianato di Cagliari.

 

Le memorie manoscritte conservate nell’Archivio sono suddivise in tre volumi:

  • il primo va dal 1804 al 1816, conta 81 memorie in 199 pagine;
  • il secondo va dal 1817 al 1837, conta 103 memorie in 113 pagine;
  • il terzo va dal 1841 al 1859, conta 139 memorie per 105 pagine.

A tali memorie si aggiungono le memorie alle deputazioni che contengono varie interlocuzioni e carteggi con i Soci.

Le memorie più significative furono oggetto di pubblicazione a partire dal 1836. 

Il progetto per la pubblicazione delle Memorie Accademiche prevedeva che a partire dal 1836 sarebbe stato pubblicato un volume annuale contenente principalmente l’estratto delle Memorie, o le stesse Memorie per intero, ove tutte quante “si giudichino potere interessare”, col Titolo di “Giornale della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari”. Il volume sarebbe stato diviso in quattro fascicoli trimestrali con non meno di novanta pagine cadauno. Nel volume sarebbero stati inseriti quei sunti d’altri giornali o di opere contenenti nuove scoperte in campo agricolo, che si stimassero meritevoli di essere conosciute nel Regno; il Redattore di questo Giornale sarebbe stato l’Accademico Meloni, coadiuvato da due collaboratori eletti dall’Accademia.

Purtroppo si legge in una successiva memoria che le pubblicazioni dovettero cessare nel 1841 per l’impotenza nel far fronte alle spese.

La Camera di Commercio Industria, Arti e Artigianato di Cagliari ha in progetto la prossima digitalizzazione del prezioso patrimonio documentale delle memorie al fine di preservarne il contenuto e favorirne la conoscenza e divulgazione.