
La Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari – PARTE I
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Gli interventi della Reale Società
Si cercherà di evidenziare il contributo della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari nel campo agrario, industriale, commerciale durante il periodo della sua esistenza, dal 1804 alle soglie del 1860 fornendo una panoramica degli interventi maggiormente significativi posti in essere dando evidenza alle azioni e ai provvedimenti più incisivi.
L’Accademia da subito cercò di operare quei cambiamenti indispensabili alla creazione di presupposti giuridici stabili, in grado di fungere da sostrato e sorreggere tutte le politiche di incentivazione allo sviluppo agricolo e industriale.
In particolare tra i primi interventi, strutturati sulla base di una scala di priorità costruita sulle reali esigenze di riforma della struttura economica isolana, è fondamentale quello relativo alla riforma dei rapporti giuridici di proprietà della terra.
In campo agrario un “degno oggetto delle prime occupazioni accademiche” ebbe per tema: “conciliare l’Agricoltura colla Pastorale, ossia trovare i mezzi coi quali cessando le insorte gare tra gli agricoltori e ed i pastori, si possa far fiorire e prosperare questo doppio ramo di ricchezza Nazionale”.
Comunione delle terre e proprietà privata
Il dissidio plurisecolare aveva sovente avuto conseguenze funeste per la tranquillità pubblica e privata. Le contrapposte motivazioni del dissidio tra le due classi potevano fondamentalmente riassumersi così: gli agricoltori lamentavano il fatto di trovare i loro seminati divorati dal bestiame, mentre i pastori denunciavano il fatto di avere a disposizione sempre meno terreno per il pascolo, a causa della protezione accordata all’agricoltura e dei continui incendi, effettuati dagli agricoltori per avere a disposizione più terreno per le colture.
I contrasti erano solitamente provocati dai pastori, spinti dal bisogno di cercare altro pascolo per le proprie mandrie.
Per aumentare la quantità di fieno ed evitare che il bestiame distruggesse i seminati, l’Accademia proponeva la creazione di prati artificiali (almeno uno per ogni villaggio), in modo da integrare gli scarsi pascoli naturali.
Il progetto dell’Accademia (09/10/1805) prevedeva la “facoltà” di chiudere le terre, per un’estensione massima di 10 starelli, con l’obbligo di destinare 1/10 di queste chiusure alla coltivazione di prati artificiali “dove si seminino le erbe pratensi che più si confanno al nostro clima, dietro le esperienze che l’Accademia si propone fin d’ora di farne”; il piano si articolava in questo modo:
- stabilire e propagare, per via di semplice invito e senza costrizioni, le praterie artificiali nel regno;
- aumentare la massa dell’erba verde per il pascolo degli armenti, “riservando se vorranno, l’ultima falciatura per il fieno”, e migliorare la qualità delle erbe;
- migliorare i pascoli con erbe più salubri, più nutrienti, trovando quelle più adatte a ciascuna specie di animale;
- promuovere il sistema delle chiusure, “imprescindibile ovunque si voglia che prosperi l’agricoltura”;
- “animare” i proprietari lasciando nove decimi del chiuso a loro disposizione, al fine di coltivarlo a loro discrezione, e destinare a prato il rimanente decimo;
- moderare l’ingordigia dei grandi proprietari, con la fissazione del limite dei 10 starelli per ogni chiusura.
Questo progetto costituì un punto di riferimento importante per l’emanazione dell’Editto del 3 dicembre 1806, mirante ad incrementare la coltivazione degli ulivi: esso concedeva ai proprietari di terreni aperti di formare liberamente dei chiusi per impiantare nuovi oliveti.
La legge del 3 dicembre 1806 non ebbe un grande successo, a causa dell’assenza di misure finanziarie a sostegno dell’iniziativa e per l’impotenza delle autorità a perseguire chi, fornito dei mezzi e dei requisiti idonei ad effettuare le chiusure, non si fosse interessato alla loro realizzazione.
Il problema delle chiusure venne allora lasciato in disparte. Dopo il rientro di Carlo Felice (1814) in Sardegna si sviluppò un ampio dibattito che convinse il Re Vittorio Emanuele I a promulgare il Regio Editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna, “al fine di assicurare ed estendere la proprietà così da promuovere l’agricoltura”.
Queste misure, che non prevedevano un supporto finanziario per la realizzazione delle chiusure, favorirono però principalmente i ricchi e possidenti che avevano le risorse per chiudere le terre; oppure crearono una miriade di microscopici appezzamenti derivanti dalla divisione delle viddazzoni. Di fatto non ebbero l’esito di favorire il miglioramento agricolo.
Sempre in campo agrario è significativo il progetto accademico volto all’introduzione dei contratti di Società in surrogazione delle roadie, effettuate per la reintegrazione dei fondi dei Monti Frumentari (detti anche Granatici).
Le roadie consistevano in prestazioni lavorative di natura semi-coattiva e gratuita, eseguite periodicamente dai lavoratori di ogni villaggio, in un terreno comune, per reintegrare il grano da semenza dei Monti Granatici.
La natura di queste prestazioni lavorative era causa di numerosi inconvenienti, primo dei quali il fatto che le operazioni di semina, cura della crescita e raccolta del grano non seguissero i tempi biologici necessari, ma fossero ancorate ai giorni festivi (soprattutto la domenica), gli unici che gli agricoltori potevano dedicare alla roadia: “in una parola è puro effetto del caso se nelle roadie qualche epoca delle operazioni coincide coi giorni destinati al lavoro, e può dirsi quasi matematicamente dimostrata l’impossibilità del buon esito” del raccolto; infatti, molto spesso, il grano veniva mietuto immaturo perché la data della prestazione lavorativa non coincideva con la maturazione del prodotto, oppure perché veniva seminato in zone aride e inadatte. Inoltre i lavori venivano sovente eseguiti con svogliatezza, per il fatto che le roadie costituivano un aumento della già gravosa imposizione che colpiva gli agricoltori. Infine i preposti al controllo delle operazioni di semina e raccolto (Parroci, Giusdicenti, Censori locali) avevano poca cura nel vegliare sul buon andamento del lavoro, a causa dell’accavallarsi di altri impegni.
L’inefficienza del sistema delle roadie era la principale causa della scarsa qualità delle sementi costituenti la dotazione dei Monti Granatici.
L’Accademia proponeva allora di sostituire alle roadie i contratti di sozzeria, e di limitare le prestazioni obbligatorie alla pulizia dei campi dalle erbe parassitarie, e alla collaborazione al tempo della raccolta delle messi; la “sozzeria” o “soccida” consisteva in un contratto di società fra (in questo caso) il Monte e un abile agricoltore (“Socio”), il quale avrebbe assolto all’impegno di curare il raccolto (“al tempo e al modo delle operazioni agrarie”) per la reintegrazione del fondo di grano del Monte, consegnando nei depositi di quest’ultimo la metà del raccolto effettuato, e tenendo per sé, a livello di retribuzione, la restante metà dei frutti.
L’Accademia si assumeva l’onere di elaborare le più opportune istruzioni agrarie, da comunicare alle Giunte Locali, che avrebbero dovuto puntigliosamente essere eseguite dal “Socio” incaricato della cura del raccolto. Istruzioni semplici da capire ed eseguire, che non apparissero come una innovazione rispetto al sistema vigente, ma solo una miglioria, al fine di evitare, “se fia possibile, l’urto dei pregiudizi invalsi”. La corretta coltura dei grani, da parte del “Socio”, supervisionata dalle Giunte Locali, avrebbe costituito il migliore esempio pratico, e la migliore “scuola di coltivazione”, per tutti gli agricoltori del Regno.
Il 12/12/1805 la R. Segreteria autorizzò la surrogazione dei contratti di società alle roadie nei villaggi più prossimi a Cagliari. La Reale Società chiese allora al Governo che le Giunte Locali, le quali sarebbero state lo strumento di applicazione e di controllo del provvedimento, fossero poste sotto la sua dipendenza, esclusivamente al fine della realizzazione dei contratti di società. Ma il Censore Generale (“Capo delle Giunte Locali”) si oppose all’attuazione del provvedimento, dichiarandosi estraneo a qualunque “sinistro avvenimento” fosse conseguito alla realizzazione dei contratti di società sotto la supervisione accademica, e mostrandosi disponibile, solamente, a scrivere ai Parroci dei villaggi per chieder loro di negoziare spontaneamente, e non in forza di legge, i contratti di soccida in luogo delle roadie. A questo rifiuto di collaborazione la Reale Società rispose chiedendo al Governo di essere dispensata dall’esecuzione del progetto e domandando un intervento volto ad imporre la realizzazione dello stesso ai Monti Granatici, dietro la supervisione e il controllo della R. Segreteria di Stato. Il Censore Generale rifiutò anche questa modalità d’attuazione del progetto ritenendo che i cambiamenti apportati avrebbero procurato grossi danni ai Monti. Ciò determinò il fallimento del progetto.
La realizzazione di presupposti giuridici stabili e le riforme volte allo sviluppo della produttività agricola costituivano, per l’Accademia, gli indispensabili e fondamentali punti di partenza per l’ulteriore estrinsecazione della politica d’incentivazione all’agricoltura, all’industria e al commercio.
Politica agricola
Lo sviluppo agricolo era considerato propulsivo allo sviluppo del commercio e dell’industria. L’idea del prioritario sviluppo da concedere al settore agrario aveva la radice nell’idea fisiocratica della terra come fondamento della ricchezza dello Stato che l’Accademia, sia per il suo pensiero di tendenza liberale, sia grazie ai frequenti contatti con gli organismi simili degli Stati di terraferma (come l’Accademia dei Georgofili di Firenze), aveva fatto propria. Il miglioramento dell’agricoltura costituiva il presupposto per la creazione dell’industria e l’attivazione del commercio.
L’attuazione di questo progetto trovava però un grosso ostacolo nella scarsa densità della popolazione del Regno, decimata da epidemie, malaria e frequenti carestie, fatto che rendeva impossibile preventivare di diminuire la forza lavorative nell’agricoltura per impiegarla in altri campi. Al fine di limitare i danni dei fenomeni spopolatori l’Accademia propose la vaccinazione preventiva obbligatoria contro il vaiolo per tutti gli abitanti del Regno, resa effettiva dal R. Editto 08/02/1828; programmò la coltivazione di generi alimentari alternativi ai cereali (come patate e legumi), che avevano una maggiore probabilità di produrre sostanziosi raccolti, per sopperire alla scarsezza dei raccolti dei periodi di carestia, e inoltre pianificò la bonifica di zone insalubri.
Sempre al fine di una equilibrata e migliore distribuzione demografica, l’Accademia auspicava l’impiego della maggior parte delle braccia maschili del Regno in campo agrario, mentre alle attività ausiliarie a quelle agricole proponeva si dedicassero le donne ed i ragazzi del Regno. Un esempio concreto del tentativo d’attuazione di questo proposito è contenuto nel progetto sull’istituzione delle pubbliche panetterie a Cagliari; il piano accademico prevedeva che l’attività di panificazione di Cagliari, detenuta nelle mani di oltre 700 piccole panetterie, venisse concentrata nelle mani di poche panetterie, pubbliche, le quali avrebbero assolto alla produzione di pane per l’intera città. Per i lavoratori delle 700 panetterie cittadine (per lo più donne e ragazzi) che sarebbero rimasti senza lavoro, l’Accademia proponeva l’impiego nel settore manifatturiero (in lanificio, setificio, cotonificio), che ancora languiva nel Regno. In questo modo era possibile ipotizzare uno sviluppo manifatturiero di Cagliari senza il disimpiego di manodopera dal settore agricolo. Questo progetto mirava anche all’introduzione dei forni grandi in luogo dei piccoli, e del pane “genovese” al posto della pasta dura tipicamente sarda. Con queste ultime due proposte si mirava al conseguimento di economie di scala; era infatti maggiormente conveniente, a livello di costo di produzione, concentrare la cottura del pane in pochi forni grandi e “pubblici” e produrre il “genovese” che meglio si adattava ad essere cotto in tali forni. Riguardo alla coltivazione del cotone, con Regio Editto del il 31 agosto 1819, dopo sei anni dall’approvazione regia del progetto sulle panetterie, venne emanato un Pregone: esso disponeva l’introduzione della coltura del cotone, “adatto al clima e al suolo sardo”.
Il provvedimento stabiliva che gli strumenti d’applicazione del decreto sarebbero stati i Monti di Soccorso e le Giunte Locali; “L’esempio solo può rendere generale la coltivazione del cotone; epperciò abbiamo divisato di farvi concorrere i Monti di Soccorso che hanno reso si grande servigio alla coltivazione dei grani e che sono istituiti appunto per promuovere l’industria rurale: a loro incombe d’introdurre una coltivazione divenuta, può dirsi, indispensabile al Regno. La cura di rendere il cotone indigeno in Sardegna noi la commettiamo alle Giunte Locali”.
I Monti e le Giunte avrebbero dovuto indicare i luoghi più adatti alla coltivazione e la quantità dei terreni disponibili. Le Giunte inoltre avevano il compito di fornire la semente, fissarne il prezzo, acquistare direttamente dai produttori il cotone, deducendone l’importo anticipato per le semenze. Il sistema suggerito per la coltivazione era quello delle roadie e delle società. Al Pregone venivano allegate delle istruzioni sulla coltivazione del cotone predisposte dall’Accademia.
Il provvedimento del 1819 però non produsse tutti gli effetti sperati, a causa dell’aridità del terreno sardo, della siccità e delle frequenti escursioni climatiche.
La politica agraria accademica era mirata al miglioramento dei sistemi di conduzione e delle pratiche agrarie in uso nel Regno, all’introduzione di nuove colture (come ad esempio cotone, gelsi, patate, riso), al perfezionamento delle coltivazioni tradizionali (oliveti), allo studio delle condizioni ottimali per l’avvicendamento delle colture, all’introduzione di una migliore economia di tempo e di lavoro, conseguibile con l’utilizzo di macchinari di “moderna invenzione”.
L’Accademia poneva alla base della diffusione delle idee e dei consigli la sperimentazione pratica, che fungeva da banco di prova capace di migliorare continuamente le cognizioni accademiche. Questa sperimentazione costituì, ad esempio, l’elemento essenziale per la compilazione delle istruzioni sulla coltivazione del cotone, che vennero allegate al Pregone del 31 agosto 1819, provvedimento che mirava appunto all’introduzione della coltura del cotone nel suolo sardo; altresì l’Accademia intentò, con successo, la coltivazione delle patate e dei legumi e diffuse i consigli per la loro messa a coltura; realizzò, in piccola scala, i vantaggi derivanti dalla coltivazione dei gelsi e della connessa industria serica, collaudò con successo la coltura del tabacco originario del Kentuky.
Riforma dei carri e delle strade
Un altro esempio della sperimentazione è quello alla base della riforma dei carri. La Reale Società si propose, dal 1805, di esaminare la struttura dei carri in uso nel Regno, per cambiarla, “in senso di rendere la macchina più leggera, più agile al moto e meno pregiudiziale ai buoi che la traggono, capace di trasportare un maggior peso e meno rovinosa per le pubbliche strade”.
La struttura del carro sardo dell’Ottocento, peraltro “sodissima”, prevedeva la scala formata da un solo pezzo di legno, opportuna “nell’agevolare tanto il moto rettilineo del carro, quanti i giri che occorre di fare”, un pavimento costruito di legni pesantissimi, in apparenza piccolo, ma capace di caricare un peso o un volume pari a quello trasportato dai migliori carri di altre Nazioni.
Il carro sardo era in grado di trasportare sino a 20 starelli di carico ma era dotato di ruote fisse attorno all’asse mobile e di chiodi a punta (le cosiddette “punte di diamante”) nella cerchiatura esterna delle ruote. Queste due caratteristiche erano fonte di grossi problemi, infatti il movimento delle ruote fisse all’asse produceva un grosso attrito con lo stesso e questo costituiva un notevole ostacolo “al moto celere del carro”, mentre le punte di diamante delle ruote provocavano delle “linee, siffattamente profonde”, che erano, col tempo, “di grande impedimento alli viaggiatori” e “guastavano la piana superficie de’ pubblici camini”.
La proposta della Reale Società fu di proibire le ruote fisse all’asse e le punte di diamante e a tal fine sperimentò, nell’arco di un ventennio, vari modelli di carro, incentivando la proposta di innovazioni di potenziali inventori con alcuni premi. Col Pregone del 29 settembre 1826, il Governo approvò il modello conclusivo di carro proposto dalla Reale Società, vietando contemporaneamente la costruzione dei carri “all’antica”, tollerando l’uso di questi ultimi finché le ruote non si fossero rese inutilizzabili a causa del logorio; con successivo Pregone dell’8 luglio 1828 si permise solo l’uso dei carri con le ruote mobili attorno all’asse fisso e senza chiodi “taglienti” nelle ruote. Tramite questo provvedimento venne definitivamente sancita la riforma dei carri nel Regno.
Alla riforma dei carri si accompagnò la riforma delle strade; nel 1821 l’Ingegnere Giovanni Antonio Carbonazzi, venne incaricato dal Governo di progettare la rete stradale per tutta l’isola.
Il progetto, approvato nel novembre del 1821, prevedeva la costruzione delle strade provinciali e divisionali di Alghero, Bosa, Iglesias, Castelsardo, della Gallura, dell’Ogliastra e della Marmilla, oltre alla costruzione di due strade regie, una longitudinale fra Cagliari e Sassari e l’altra trasversale da Oristano a Orosei. Nel 1822 venne dato l’appalto per la costruzione delle strade alla società Mosca Arri, Castaldetti, nota per la costruzione delle strade nei difficili passi del Sempione e del Moncenisio.
Nel 1829 venne terminata la strada che congiungeva Cagliari con Sassari, e nel 1834 venne istituito un servizio di cantonieri per la sua manutenzione. La strada di Alghero, iniziata nel 1830, (per uno sbocco del sassarese verso il mare) venne terminata nel 1844, mentre quella dell’Ogliastra (per uno sbocco del territorio, fertilissimo, di Isili e Senorbì, verso Cagliari) rimase incompiuta per mancanza di fondi.
Nel 1848 esistevano 448 Km. di strade, e i successivi lavori vennero ripresi dopo il 1862.
Per la divulgazione dei consigli pratici, delle teorie e degli studi effettuati, l’Accademia si serviva dei propri soci corrispondenti, i quali, presenti in tutte le zone del Regno, fungevano da primario tramite fra l’Accademia e gli abitanti dell’isola. Ma non sempre l’azione dei corrispondenti riusciva ad essere così incisiva da realizzare concretamente le indicazioni accademiche e indurre a quei rilevanti cambiamenti di mentalità negli agricoltori, così indispensabili per un’organizzazione più razionale dell’agricoltura; l’Accademia, per sopperire a questa carenza decise, sin dalle prime sedute, di diffondere consigli e istruzioni tramite la stampa di un giornale. Nel 1828 completò la compilazione di un Catechismo Agrario ad uso delle scuole normali del Regno, mentre il progetto del giornale venne portato a compimento solamente nel 1836, quando l’Accademia decise la pubblicazione delle proprie memorie e di utili consigli agrari in un giornale che aveva il titolo di “Giornale della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari”. Ma, a causa dell’elevato prezzo di mercato, questa non si diffuse proprio nei villaggi, “laddove è il nerbo dell’agricoltura”. Nel 1841, a causa della scarsezza dei fondi la pubblicazione venne sospesa.
Politica commerciale
In riferimento alla politica commerciale, il principale obiettivo dell’azione accademica consisteva nella liberalizzazione dei prezzi e nella realizzazione del libero mercato dei beni; la concorrenza, realizzando il perfetto equilibrio tra domanda e offerta di beni, si prestava ad essere il migliore strumento regolatore dell’economia del Regno. La libertà di commercio avrebbe incentivato la produzione industriale, prodotto l’abbondanza dei generi, comportato la diminuzione dei prezzi e l’aumento nei consumi.
L’Accademia aveva compiuto un’accurata analisi dell’economia di quei Paesi (tra questi anche il Piemonte), che adottavano (abusandone) i provvedimenti mercantilistici, tendenti all’introduzione di dazi, privilegi, barriere e vincoli, mirati a proteggere l’industria nazionale e a conferire così forza e vigore all’economia del paese; e aveva altresì constatato come questa politica, invece che rafforzare l’economia e le attività produttive nazionali, tendesse a causare eccessive fluttuazioni dei prezzi, speculazioni (causa di gravi carestie), scarsa professionalità dei lavoratori.
Era opinione dell’Accademia che per rilanciare la produzione e migliorare l’economia di una Nazione non occorressero dazi protettivi; occorreva invece intensificare la produzione, sfruttando al meglio le forze produttive del suolo, producendo le colture più adatte al tipo di terreno, usando concimazioni e metodi di avvicendamento agrario razionali e mirati, sostituendo alle produzioni povere altre di maggior rendimento. E’ importante evidenziare come spesso l’Accademia promuovesse i miglioramenti da realizzare, in campo agricolo e artigianale-manifatturiero, dietro l’incentivo di premi (così come previsto nel regolamento istitutivo), al fine di sviluppare l’estro e le capacità isolane. Esistono molti esempi di questa politica dei premi accademici (il premio del Bue Grasso, premi in occasione delle esposizioni fieristiche, premi per la costruzione di nuovi macchinari, premi per la coltura dei gelsi, per la produzione di seta, cotone, canapa, lino ed altri).
I dazi protettivi erano misure eccezionali, che potevano però essere adottate dal governo solo in casi eccezionali, e per periodi di tempo limitati, esclusivamente al fine di risollevare le sorti di attività nazionali in crisi. L’Accademia era favorevole ad accordare qualche temporanea protezione a tali attività, per consentire loro di acquistare la competitività e la giusta forza per operare poi nel libero mercato senza più l’aiuto governativo. Nelle memorie pubblicate è riportato il caso della richiesta della Reale Società al governo per la concessione di protezione ai produttori di vino e ad una fabbrica di “terraglie” (stoviglie) di Alghero.
Ciò può far pensare che la Reale Società non fosse intimamente convinta dei valori liberisti che propugnava, ma occorre al proposito evidenziare come l’attuazione di una politica liberista, se astrattamente concepita, avrebbe potuto non produrre effetti economici positivi per attività che non possedevano gli strumenti e le potenzialità per sorreggersi da sole nel mercato. Diventava indispensabile e preliminare a qualsiasi intervento di natura liberista un intervento volto al rafforzamento del mercato e degli operatori che in questo dovevano intervenire.
Gli effetti della libera concorrenza (e il tentativo di concreta attuazione dell’astratto modello liberista) vengono realizzati nel Regno con l’istituzione del pubblico mercato a Cagliari, predisposto dal Governo sulla base delle indicazioni accademiche. Il mercato, vero banco di prova degli effetti della liberalizzazione dei prezzi, mostrò da subito degli importanti e significativi risultati: la diminuzione dei prezzi, l’abbondanza e la qualità dei generi. A parere dell’Accademia, la realizzazione del mercato avrebbe mostrato l’inutilità e gli abusi connessi al sistema delle tariffe. Queste infatti, ulteriore aspetto dell’ingerenza politica e del protezionismo economico, erano stabilite su tutti i beni in commercio nel Regno, ma non avevano alla base della loro determinazione alcun riscontro oggettivo riferito al valore di mercato del bene.
La Reale Società riteneva però dannoso il passaggio improvviso da un sistema di prezzi interamente politici ad un sistema di liberi prezzi, e perciò proponeva che, almeno inizialmente, i generi di primaria necessità (quali pane, acqua, formaggio, olio, carne), continuassero ad essere sottoposti a tariffa, sottolineando però che la stessa avrebbe dovuto rispecchiare il “natural valore” del bene, ossia il prezzo che il bene avrebbe avuto se fosse stato scambiato nel libero mercato.
Ma il fatto che alla sorveglianza del buon andamento delle contrattazioni del mercato fossero preposti degli impiegati governativi corrotti e il fatto che i rivenditori, i rigattieri e i beccai (categorie che si interponevano tra il produttore e l’acquirente, allungando la catena della distribuzione senza apportare alcuna aggiunta al valore della merce e provocando così l’aumento dei prezzi), nonostante fossero delle categorie bandite dal mercato, vi fossero invece sempre presenti, erano i due elementi principali che portarono al fallimento. Inoltre la direzione del mercato era stata affidata all’Amostassen, il quale aveva portato confusione e disordine all’interno della struttura; questa figura, profondamente invisa in seno all’Accademia, era storicamente nata come ispettore governativo dei pesi e delle misure, avente l’incarico di riferire al Magistrato Civico i casi di frode riscontrati nella città; ma col tempo quest’impiego si era trasformato, fino a divenire quello di un vero e proprio tariffatore, che imponeva i prezzi alle derrate a proprio piacimento, senza alcuna relazione col “natural valore” dei beni, e che castigava le frodi altrettanto arbitrariamente. Si può ben capire come l’Amostassen non fosse la figura adatta a ricoprire la carica di direttore del mercato.
La sperimentazione della libertà di mercato è costante;
L’Accademia propugna la realizzazione di Fiere annuali del bestiame e mirava ad incoraggiarne la partecipazione, con l’incentivo di sostanziosi premi, in modo dar vita ad un’esposizione regionale di bestiame bovino ovino ed equino. I luoghi d’esportazione sarebbero potuti essere: Sanluri, Ozieri, Sorgono, paesi agricoli già soliti ospitare mostre di questo tipo. La fiera avrebbe potuto essere il primo passo per la nascita di mercati stabili, per il commercio del bestiame da lavoro, da riproduzione e da macello, nei paesi sopracitati.
L’introduzione di migliori razze di bestiame bovino e delle possibilità offerte dai mercati ci mostra dei notevoli risultati in termini di esportazione di bestiame, nel periodo compreso tra il 1853 e il 1856. Il valore del bestiame esportato era ottuplicato passando da un valore di 79.821 lire del 1853 a quello di 630,989 lire del 1856 e la metà circa di questa produzione era indirizzata alla Francia:
Inoltre, per opera del Consiglio Civico, nel 1840, venne istituita la Fiera Nazionale annuale in Cagliari, in occasione della tradizionale festa di Sant’Efisio, tra il 30 aprile e il 4 maggio. Il Consiglio Civico dettava le norme per l’organizzazione della fiera, e l’Accademia aveva il diritto di apportare le variazioni che avesse ritenuto utili.
Alla fiera erano invitati a partecipare negozianti, gremi di artisti, lavoratori; si permetteva la vendita all’ingrosso con libertà dei prezzi e si conferivano premi ai migliori espositori.
La Reale Società partecipava alla manifestazione offrendo consigli, contributi e soprattutto premi, quali incentivi per lo sviluppo dell’industria nazionale.
I Gremi
La posizione liberista veniva ribadita con forza sull’argomento dei Gremi (le corporazioni professionali del Regno), associazioni artigiane concessionarie di tutti i privilegi connessi all’esercizio delle professioni nel Regno. L’Accademia, preliminarmente ad ogni proposta di intervento discuteva “se l’antichissima divisione e rispettiva riunione degli artisti in tante distinte Corporazioni, tuttora esistenti sotto il nome di Gremii, e rivestite anche oggidì di tutti i privilegi loro concessi nei secoli trasandati, si avesse a considerare come un inceppamento o piuttosto un mezzo opportuno e conducente al miglioramento delle Arti”.
L’Accademia riteneva che questi privilegi rappresentassero un enorme ostacolo allo sviluppo delle professioni; il fatto che le corporazioni avessero un mercato garantito e protetto dallo stesso Governo eliminava l’incentivo alla competizione che invece la concorrenza avrebbe tenuto in vita, con la conseguenza che le tecniche produttive non avevano incentivo al miglioramento. Le corporazioni si contrapponevano concettualmente alla libertà di commercio auspicata da economisti come Beccaria e Verri, riferimenti fondamentali nel pensiero accademico. Era pensiero del Beccaria che “l’oggetto” di tali associazioni fosse quello di concentrare nelle mani di poche persone l’esercizio dell’arte e l’arbitrio del prezzo, con l’istituzione di lunghissimi tirocini che scoraggiavano invece che “invitare all’industria in vista del prossimo guadagno”, con esami per diventare congremiati e “Maestri” viziati di grossissime parzialità.
I Gremi erano ritenuti anacronistici e l’Accademia auspicava la loro soppressione e la conseguente liberalizzazione del mercato del lavoro; ciò avrebbe prodotto qualità e specializzazione delle prestazioni lavorative, con la conseguenza che tutti i lavoratori, per meglio collocarsi all’interno del mercato, avrebbero avuto l’incentivo continuo a migliorarsi, a competere, ad aggiornarsi e a recepire le novità che provenivano dagli altri Paesi. Questo miglioramento individuale sarebbe stata la molla propulsiva per lo sviluppo delle arti.
Alle corporazioni era anche connessa tutta una serie di inconvenienti, quali:
- la difficoltà di riuscire nell’arte, a causa del lungo tempo infruttifero di pratica previsto dallo statuto, che demotivava fortemente i giovani;
- la perdita di tempo dovuta ad inutili formalità, cui erano soggetti i novizi prima di ottenere la patente;
- il pagamento della matricola, il pagamento del “Notaio di Città” (“per l’incartamento che dee farsi per Atto pubblico”), la spesa per il festino del giorno dell’esame, per i nuovi associati; tutte somme che diminuivano la loro possibilità economica d’acquisto di materie prime, macchine e strumenti (il peso di queste spese ricadeva poi sul pubblico, sotto forma di prezzo maggiorato delle manifatture prodotte dal nuovo matricolato);
- gli ostacoli che venivano opposti alle migliorie nei processi produttivi;
- gli ostacoli al cambiamento di professione, che richiedeva un nuovo tirocinio e un nuovo esborso monetario;
- le liti dispendiose, perché i limiti dei differenti mestieri non erano marcati con esattezza;
- il divieto, per chi non apparteneva a un gremio, di “esercitarsi” in quell’arte.
Inoltre, l’esame per conseguire il titolo e grado di Maestro era viziato da ingiuste parzialità e si era ridotto ad una mera formalità. Venivano avvantaggiati i figli dei Maestri e sfavoriti coloro che non avevano potenti agganci all’interno del gremio. Al fine di porre rimedio a questo “abuso”, l’Accademia suggeriva al Governo di assoggettare a nuovo esame, per mezzo di una speciale Delegazione, coloro che avevano il titolo di Maestro, per valutarne la preparazione tecnica e la competenza. Il superamento dell’esame governativo necessario ad esercitare la professione sarebbe stato favorito dall’esistenza di un corso di geometria pratica nella R. Università e di una scuola pubblica di disegno in Cagliari.
Con l’insieme di queste proposte, la Reale Società Agraria si schierava contro un corporativismo perdurante (che aveva l’unico scopo di perpetuare i privilegi di classe), che recava un danno economico al paese, in quanto non lasciava sufficiente spazio allo sviluppo delle arti.
Il Governo, in sintonia con la linea di pensiero accademica, con R. Biglietto 17/03/1838 abolì l’obbligo della “formazione di un capo d’opera”, sussistente per tutti i congremiati che avessero voluto esercitare il mestiere e per i quali comportava esosi esborsi e inutile perdita di tempo. Infatti le spese per la realizzazione del “capolavoro”, indispensabile per diventare “artisti” a tutti gli effetti erano molto alte e costituivano un ulteriore gravoso ostacolo all’esercizio dell’arte.
Ma il cambiamento radicale venne apportato da una Regia Lettera Patente del 14/08/1844, con la quale “nella determinazione di svincolare e rendere libero l’esercizio di ogni industria nei nostri Reali Domini”, si soppressero le “Corporazioni di Arti e Mestieri” e si abolirono i loro statuti e regolamenti, “conservando agli individui addetti ad una medesima Arte la facoltà di esercitare in comune atti di religione e di carità e beneficenza”.
Diventava libero a chiunque, di conseguenza, l’esercizio di qualsiasi arte o mestiere e cessavano gli obblighi, i divieti, i vincoli, le restrizioni, gli esami, i pagamenti dei diritti di ammissione al “maestrato” o alla corporazione, imposti dagli statuti dei gremi.
Queste disposizioni segnarono il raggiungimento di un traguardo molto importante. Simili cambiamenti modificavano la natura dei gremi; veniva così meno la loro “forma di politica esistenza”.
Il Governo passava così gradualmente dalle teorie mercantiliste, alle teorie fisiocratiche, considerando dannosi (“distruttivi e impeditivi”) al commercio i privilegi richiesti, e ritenendo inutili e svantaggiose le “privative”, perché soffocavano l’industria e le arti invece che animarle.
Oltre a ciò l’Accademia ottenne l’approvazione di un’altra importantissima proposta, quella dell’istituzione di scuole, a spese degli stessi Gremi, in grado di conferire professionalità, tecnicità, competenza ai corporati. La prima scuola che vide la luce (1845) era quella di Nautica, istituita a spese del Gremio dei sant’Elmari, per i quali quest’istituzione avrebbe assolto al prioritario bisogno della corporazione, di disporre di competenti piloti e capitani mercantili. Subito dopo, a spese dei Gremi dei Muratori, dei Falegnami, degli Scarpari, dei Pescatori, degli Ortolani, dei Fabbri ferrai, degli Scaricatori, e con l’aggiunta di un aiuto economico da parte dell’Accademia, si giungeva all’istituzione di una scuola di aritmetica elementare e di pratica dei pesi e delle misure, al fine di fornire ai corporati le più elementari basi di disegno e calcolo. Inoltre veniva (1858) predisposta l’attivazione di una scuola teorico pratica agraria per l’istruzione degli allievi dell’Ospizio Carlo Felice; per la realizzazione di quest’ultima scuola lo stesso Governo metteva a disposizione un fondo di 4.000 lire.
L’Accademia dedicava molta attenzione al problema della scuola e dell’istruzione, poiché aveva constatato quanto difficoltosa fosse la diffusione dei “lumi”, in un contesto ove l’insegnamento didattico era pressoché totalmente nelle mani del clero e l’uso della lingua italiana non esteso. Era indispensabile sviluppare una alfabetizzazione diffusa della popolazione che avrebbe contribuito a diffondere le idee e le tecniche accademiche, presso tutte le zone del Regno, e in particolar modo nei villaggi, ove “è il nerbo dell’agricoltura”, e ove invece i consigli accademici avevano maggiore difficoltà ad essere recepiti.
Ulteriori consigli accademici, cui fecero seguito degli importantissimi provvedimenti governativi, furono l’introduzione del sistema metrico decimale e la predisposizione del regolamento Forestale.
Pesi e misure
La Reale Società Agraria venne incaricata, nel 1841, dal Governo di esaminare il progetto di regolamento predisposto dallo stesso, “per la sistemazione dei pesi e delle misure nel Regno”. Sulla base dei consigli forniti dalla Società venne redatto l’Editto del 1 luglio 1844, tramite il quale il Governo estese a tutta l’isola il sistema metrico decimale.
Il provvedimento stabiliva che dal 01/01/1846 le nuove misure subentrassero negli atti delle Regie Amministrazioni, mentre ai municipi, ai pubblici stabilimenti, ai privati e ai commercianti, dava facoltà di far uso provvisoriamente della nomenclatura di alcune poche antiche misure sarde, delle quali però fosse reso ben noto il valore in cifre decimali. Queste misure erano:
- la Canna di 12 palmi – misura di lunghezza pari a tre metri;
- il Palmo – misura di lunghezza pari a 25 centimetri;
- lo Starello – come misura agraria o di superficie, pari a 40 are;
- lo Starello – come misura di capacità per materie secche, pari a 50 litri (1/2 ettolitro);
- la Botte – misura di capacità per liquidi di quartara, pari a 50 litri (1/2 ettolitro);
- la Quartara – misura di capacità per vino e altri liquidi pari a 5 litri (1/2 decalitro);
- la Libbra – peso uguale a 400 grammi;
- la Cantara – peso di 100 libbre, uguale a 40 chilogrammi;
Al fine di rendere concretamente comprensibili i rinnovamenti effettuati e mostrare tangibilmente la reale entità delle nuove misure, l’Editto stabiliva che in ogni città o villaggio del Regno si tracciasse, possibilmente sul piazzale della Chiesa Parrocchiale, un quadrato delle dimensioni di dieci metri per lato, pari ad un’ara (Art. 22), e in un terreno di spettanza civica, possibilmente pianeggiante, un quadrato di cento metri per lato, pari a un ettaro, o di quaranta are, pari ad uno starello (Art. 23), e che queste aree fossero chiaramente delimitate da alberi di gelso. Questi spazi sarebbero serviti come termini di confronto tra le nuove e le antiche misure.
Per l’attuazione delle modificazioni prescritte, il territorio della Sardegna veniva suddiviso in quattro distretti: Cagliari, Sassari, Nuoro e Alghero; veniva altresì istituita una speciale Commissione incaricata di dirimere le controversie che fossero sorte in applicazione dell’Editto e di controllare che le nuove prescrizioni venissero realmente osservate.
L’applicazione dell’Editto non produsse subito degli effetti positivi la mancata predisposizione di un preciso sistema di transizione fece sì che il sistema metrico decimale nell’isola fosse adottato solo nelle città e nelle trattazioni ufficiali e statali, mentre nelle campagne le misure locali perdurarono nell’uso comune fino al dopoguerra 1915-18.
Regolamento Forestale
Riguardo invece alla predisposizione del regolamento forestale la Reale Società riteneva che, per riparare alla drammatica situazione in cui versava il patrimonio forestale del Regno, occorresse ampliare le “savie”, ma poche, leggi esistenti sul taglio dei boschi e delle selve, e progettare il ripopolamento delle zone disboscate dal “ferro e dal fuoco”.
Ricevette perciò l’incarico governativo di progettare le “discipline che reputasse migliori per l’economico regime delle foreste del Regno”, e all’uopo istituì una speciale Commissione accademica, che dopo studi, analisi e indagini, nella seduta permanente del 13 e 15 febbraio 1841 presentò un progetto di regolamento forestale all’Accademia, la quale lo ratificò integralmente. Inviato poi al Governo, venne approvato con R. Patente del 14 settembre 1844.
Il Regolamento Forestale disponeva che la tutela governativa del patrimonio boschivo fosse estesa al R. Demanio, ai Comuni e ad altri Corpi Amministrativi.
L’Amministrazione dei boschi, che veniva posta alle dipendenze della R. Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna, era composta da una struttura capillare che dall’Intendente Generale e dagli Intendenti delle Provincie, dal Conservatore dei boschi, dai Brigadieri di I, II, III classe, arrivava al Guardaboschi, ai Campari, o Guardie Particolari dei Comuni.
L’Intendente Generale aveva un compito di vigilanza e supervisione sull’operato di tutte le figure che appartenevano all’Amministrazione dei boschi.
Il Primo Segretario di Stato per gli Affari di Sardegna avrebbe stabilito il numero di Brigadieri e Guardaboschi, mentre l’Intendente Generale (sentiti gli Intendenti Provinciali e il Conservatore) avrebbe deciso il numero dei Campari.
Brigadieri, Campari e Guardaboschi avrebbero prestato servizio presso i dipartimenti, distretti e circoli.
Il regolamento proibiva categoricamente gli incendi e prevedeva delle multe salate per i contravventori (dalle 50 alle 100 lire), oltreché delle ripercussioni in sede giudiziale e per il dissodamento dei terreni era previsto che dovesse essere accordato il consenso dell’Amministrazione dei boschi.
Grosse multe erano in programma anche per chi avesse eseguito il taglio delle piante, il pascolo, o effettuato scavi (per prelevare pietre, sabbia, radici), in boschi non soggetti al diritto d’uso.
Gli Intendenti delle Provincie avrebbero dovuto disciplinare i diritti d’uso, affinché i beneficiari potessero “praticarli secondo le regole di una prudente economia”, stabilendo i luoghi da adibire a pascolo, le qualità del bestiame da introdurre e ogni restrizione necessaria al caso, e altresì i boschi nei quali poter raccogliere foglie verdi o secche, erba, erica, ghiande ed altre sementi.
Il legname e gli altri prodotti dei boschi concessi a chi godeva del diritto di “ademprivio” non potevano essere venduti o ceduti ad altri.
Conclusione
L’Accademia fu un motore attivato per porre al passo con gli altri Stati Europei il Regno di Sardegna; per introdurvi quei fermenti culturali che animavano gli Stati di Terraferma e l’Europa; per dare quelle risposte all’ordinamento economico sociale vigente, precedendo in questo modo quegli sconvolgimenti sociali che in Nazioni come la Francia avevano comportato dei radicali cambiamenti politico-sociali.
Il Governo dal 1812 aveva disposto che due membri della Reale Società Agraria partecipassero attivamente alla Giunta Generale sopra i Monti di Soccorso, alla Giunta Generale ponti e strade, a alla Giunta Generale Diocesana per cercare di avvicinare e allineare le proposte governative alle concrete esigenze espresse dal territorio e al riguardo occorre segnalare un’altra importante circostanza, ossia che numerosissimi Soci fossero Sardi e l’elemento locale fosse perciò valorizzato nel consesso accademico.
E’ difficile tracciare un’analisi conclusiva sull’azione accademica, perché basando un giudizio solo sui risultati dell’azione accademica si rischia di non cogliere appieno l’importanza delle molteplici proposte rimaste senza applicazione pratica.
I risultati dell’operato accademico avevano modificato di poco l’assetto economico e sociale esistente, che avrebbe avuto bisogno di maggiori e più radicali riforme per risorgere e divenire moderno, ma ciò non deve portare a sottovalutare l’importanza delle proposte accademiche, che inserite nel contesto dell’assolutismo, hanno la capacità di sgretolare, con lentezza, ma con costanza, la struttura mercantilista dello Stato.
I concreti risultati dell’azione economica sono riassumibili principalmente nella riforma dei carri e delle strade, nell’introduzione della vaccinazione preventiva obbligatoria, nell’istituzione del mercato pubblico a Cagliari, nella creazione di prati artificiali, nell’introduzione di nuove colture (patate, cotone, riso, legumi) e nuovi metodi d’avvicendamento, di ricoveri per il bestiame e di metodi razionali d’allevamento, nell’istituzione di alcune scuole, nell’aiuto alle attività nazionali in crisi, nell’abolizione dei gremi volta alla liberalizzazione nell’accesso alle professioni.
Ma a questi risultati bisogna sommare quei fondamentali principi sanciti dall’Accademia, che anche se non fruttiferi di risultati, hanno rappresentato comunque dei semi, di nuove idee, tendenze e prospettive, che hanno generato concreti risultati solo dopo la cessazione dell’istituzione accademica. Questi principi sancivano l’importanza delle pari condizioni e opportunità per gli individui, la libertà della contrattazione del lavoro, l’inutilità del lavoro coattivo come le roadie, l’importanza della realizzazione di un sistema scolastico svincolato dal clero, libero, aperto a tutti i cittadini del Regno, in modo da formare le coscienze degli individui, oltre che lavoratori capaci e competenti.
La Camera di Commercio Industria, Arti e Artigianato di Cagliari ha in progetto la prossima digitalizzazione del prezioso patrimonio documentale delle memorie al fine di preservarne il contenuto e favorirne la conoscenza e divulgazione.



