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Gli usi civici in Sardegna

Le problematiche di tutela e valorizzazione
Parlare di terre civiche significa occuparsi di un tema di grande rilevanza. Il tema degli assetti fondiari collettivi in Sardegna preesiste non solo al dominio sabaudo, ma addirittura all’azione delle autorità feudali ed è giunto sino a noi come ordinamento giuridico radicato nella pratica rurale di gran parte dell’Isola. L’entità del fenomeno è tutt’altro che trascurabile. Gli accertamenti più recenti condotti da Argea, l’Agenzia regionale a cui è stato affidato il compito del loro censimento, ha fatto emergere una dimensione imponente. Un’estensione complessiva superiore a 300.000 ettari. La presenza di terre collettive è stata finora accertata in 333 Comuni della Sardegna su 377, ben l’88,33% (dati al 30 giugno 2019) dove risultano terreni a uso civico, raccolti in rispettivi demani civici. In alcuni Comuni sono presenti in percentuale limitata, in altri sono presenti in modo massiccio soprattutto nelle zone del nuorese e in Ogliastra dove, sovente, si supera il 50% dell’intero territorio comunale. Le terre di uso comune, che nel passato prendevano il nome di ademprivi, sul piano economico comportavano uno sfruttamento collettivo della terra secondo differenti modalità di utilizzo. Dalla semina alla raccolta del legnatico, dallo sfruttamento dei pascoli per l’allevamento alla raccolta di funghi e frutti selvatici, senza escludere ulteriori modalità di sfruttamento: abbeveratoi, cave di pietra, carbonaie, attività di pesca nelle lagune e sui fiumi. Simili agli ademprivi erano i salti e le cussorgie che però identificavano forme di godimento individuale di fondi per concessione dell’autorità ma dietro il versamento di compensi.

Si trattava, comunque, di diritti d’uso destinati al soddisfacimento delle esigenze di vita delle comunità rurali. Con il passaggio da un’economia di sussistenza ad un’economia di mercato e di consumo si è passati gradatamente verso un maggiore protagonismo degli individui e dei privati. Durante il fascismo, con la legge n. 1766 del 1927 e il suo successivo regolamento di attuazione, il legislatore statale intese decisamente privilegiare forme di godimento differenti da quelle di uso promiscuo. Si era convinti, allora, che solo in questo modo potesse essere raggiunta maggiore produttività ed efficienza aziendale. Con l’avvento della Costituzione repubblicana si entra in una fase di stallo. Alle esigenze di modernizzazione dell’apparato economico agricolo e rurale si affianca profeticamente un nuovo modello sociale che affida alla dimensione collettiva e all’intera società talune tipologie di beni pubblici. Il regime giuridico delle terre civiche risulterà poi ulteriormente specificato e ulteriormente disciplinato con l’articolo 3 del nostro Statuto di autonomia che ne attribuisce alla Regione la competenza primaria. La Regione per lunghi anni non disciplina la materia e la lascia all’autonomia delle Comunità locali dove, in assenza di regola certe, diventa frequentemente fonte di anomia, di conflitto tra consociati e di scontro sociale.

Quando finalmente la Regione si convince di esercitare la propria autonomia, è già in atto un’evoluzione normativa e giurisdizionale della natura e delle funzioni degli usi civici la quale ha comportato una sempre più frequente collisione tra competenze statali e competenze regionali. Una serie di pronunce della Corte costituzionale, di fatto, ha finito con lo svuotare di significato la previsione statutaria dell’articolo 3 e ha allineato il regime normativo dei beni alle previsioni delle norme fondamentali contenute nelle varie riforme di carattere economico e sociale, tra cui principalmente il D. Lgs. N.45/2002 (il cd. Codice Urbani). In particolare, vi è stata una decisa virata degli usi civici a protezione dell’interesse di un loro godimento da parte dell’intera comunità nazionale in termini di ambiente e di paesaggio, rispetto ai quali si è variamente configurata una serie di pronunce di tutela da parte dei giudici costituzionali. D’altro canto, però, si sono create situazioni di stallo sulle funzioni d’uso delle terre civiche in rapporto ai bisogni delle singole comunità che rischiano seriamente di impedire un’utilizzazione dinamica e funzionale da parte delle popolazioni interessate a beneficio di un godimento passivo e quasi estetizzante delle terre.

I nodi giuridici da risolvere
Senza addentrarci troppo sulla complessa vicenda giuridica che si è venuta a creare a seguito delle diverse pronunzie della Corte Costituzionale possiamo certamente affermare che il profilo della tutela ambientale e paesaggistica offerto è assai stringente. Tuttavia sono in tanti a porsi il problema di restituire un minimo di operatività alla previsione dell’articolo 3 dello Statuto regionale non per aggirare o limitare i profili di tutela quanto per valorizzare al massimo la competenza regionale in materia di usi civici e di consentire alle comunità interessate un utilizzo economico delle terre certamente in linea con le esigenze di salvaguardia ma che sia anche in grado di enfatizzare il rapporto tra i cittadini titolari dei diritti d’uso e i beni in godimento. Uno studio recente dell’Università di Cagliari (Le terre civiche in Sardegna, Problematiche giuridiche e valorizzazione, a cura di Andrea Deffenu, Giappichelli Editore 2021) ha posto in evidenza come la soluzione più funzionale passi attraverso una revisione delle norme di attuazione dello Statuto da effettuarsi in seno alla Commissione paritetica Stato Regione.

Questo importante e aggiornato lavoro di ricerca rappresenta un’importante pietra miliare poiché “da un lato pone le basi per risolvere le annose questioni giuridiche inerenti alla titolarità e alla qualificazione delle terre e, dall’altro, di facilitare un percorso di rilancio degli usi civici in Sardegna.” Non dobbiamo dimenticare che la gestione delle terre collettive ha creato e continua a creare forti conflitti sociali sia tra privati che tra enti, pertanto, sorge la necessità di individuare “uno strumento normativo in grado di ricomporre tale conflitto su cui si fondi, quindi, un modello di gestione delle terre civiche quanto più partecipato possibile”. Tra l’altro, la citata ricerca, offre una soluzione persuasiva alla problematica riguardante il mutamento di destinazione d’uso che ha generato situazioni critiche di grande impatto. Si tratta di veri e propri nodi gordiani. Si pensi alla circostanza che in moltissime fattispecie, da decenni e prima ancora del loro accertamento, si sono creati mutamenti di fatto di terre civiche, che per loro natura sono inalienabili e inusucapibili, i quali hanno portato ad un diverso utilizzo per finalità produttive o edilizie che sono di vera e propria fruizione privata. Si parla di interi comparti edilizi, di aree industriali, di opifici, di aziende agricole realizzate da privati con contratti di enfiteusi.

Con la sentenza n. 178 del 2018 la Corte Costituzionale ha cassato la norma regionale che consentiva il trasferimento dei diritti di godimento da un bene ad un altro bene. Tuttavia, ha anche chiarito che è possibile modificare “l’utilizzazione dei beni d’uso civico per nuovi obiettivi e – solo in casi di particolare rilevanza – per esigenze di adeguamento a situazioni di fatto meritevoli di salvaguardia sulla base di una valutazione non collidente con gli interessi generali della popolazione locale”. Secondo il gruppo di ricerca del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari questo sarà possibile attraverso l’applicazione dell’istituto della surroga reale. Ciò perché a differenza delle ipotesi di alienazione, che sottraggono definitivamente il bene alla collettività, il” trasferimento” “dell’uso da un bene a un altro, meglio qualificato come surroga reale, in quanto atto con funzione conservativa, si sottrae al precetto della previa sclassificazione perché non comporta mutamenti nella titolarità e tantomeno la sua estinzione”. Inoltre, la surroga reale “è volta a reintegrare i presupposti materiali dell’esercizio del diritto d’uso civico e perciò si fonda, sotto i profilo logico -giuridico sul previo accertamento dell’irreversibile compromissione dell’oggetto del diritto e sull’individuazione del nuovo bene o oggetto sostitutivo sul quale il diritto d’uso della collettività continuerà la propria esistenza giuridica”. La surroga reale, insomma, sembra soddisfare pienamente tutti “gli elementi essenziali individuati dai giudici costituzionali per il mutamento di destinazione “per adeguamento”, cioè: una situazione di fatto meritevole di salvaguardia, l’esigenza di adeguamento del fatto al diritto, la mancanza di contrasto con gli interessi della collettività”.

Se poi si considera che, contestualmente alla surroga, si potrebbe valutare l’ipotesi di una estensione delle aree oggetto di godimento, si potrebbe raggiungere anche l’obiettivo della estensione delle aree oggetto del trasferimento. Il che consentirebbe di raggiungere un risultato dell’ampliamento delle aree in godimento, del superamento della distribuzione “a macchia di leopardo” e della maggiore focalizzazione sulle nuove e più moderne funzioni e fruizioni d’uso di carattere ambientale e paesaggistico. Su questo obiettivo si sono indirizzati diversi comuni, come ad esempio il comune di Desulo che con una delibera di consiglio comunale del 2018 ha chiesto all’Agenzia Argea Sardegna il trasferimento dei diritti di uso civico (art. 18 ter della legge regionale n. 12/1994 e s.m.i. e s.m.i.) da poco più di 11 ettari di vari terreni non contigui a più di 1.577 ettari di boschi e pascoli del Gennargentu, per“ … incrementare il proprio patrimonio civico e tutelare sotto il profilo ambientale una vasta area boschiva”.

Per una più moderna fruizione delle terre collettive
Rimane tutto da esplorare il tema della messa a punto dei processi partecipativi che consenta un pieno godimento dei diritti delle collettività interessate ad utilizzare beni immobili comunali nel rispetto dei valori ambientali e delle risorse naturali. Non dobbiamo dimenticare, infatti che l’art. 2 della legge regionale n. 12/1994 chiarisce che essi appartengono ai cittadini residenti nel Comune nella cui circoscrizione sono ubicati gli immobili soggetti all’uso. Così come rimane da esplorare il tema, interessantissimo, delle diverse possibilità di utilizzo nonchè degli strumenti concreti di gestione per la valorizzazione delle terre. Il tema si iscrive nel più generale dibattito dei beni comuni e, in Sardegna, può essere declinato in funzione delle scelte programmatorie e pianificatorie dei Comuni e della Regione e in coerenza con le opportunità di accesso alle incentivazioni disposte a beneficio delle zone periferiche e delle cosiddette “aree interne”. Il contesto generale vede importanti fondamenti nell’Agenda Onu 2030, nella Strategia europea per lo sviluppo sostenibile, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, nell’enciclica papale Laudato Si’.

Al di là delle varie possibili declinazioni concrete (si pensi, ad. es., alla cooperazione di comunità, alle comunità energetiche, alla banca dati sulle terre, ai gruppi locali di autoconsumo) non v’è chi non veda, in questo contesto, una grande opportunità di rilancio del dibattito sulle zone interne della Sardegna. Un dibattito che si concentra da anni sugli obietti di contrasto allo spopolamento e alla desertificazione demografica ed economica di moltissimi piccoli centri dell’Isola ma che non ha ancora raggiunto risultati apprezzabili. Su questo tema in tanti si sono cimentati in studi, approfondimenti teorici, ricerca di soluzioni operative. Tra questi ricordiamo la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) promossa da Fabrizio Barca, e la Carta di Ollolai, promossa da Giorgio Carta e Pietro Soddu, che sintetizza le diverse opzioni messe a punto in alcuni comuni pilota della Sardegna. Di certo, discutere di terre civiche può contribuire a disegnare un più generale progetto per le aree interne e consentire di raggiungere tre distinti ma interconnessi importanti e attesi obiettivi su cui da tempo si concentra l’attenzione di molti operatori delle politiche di sviluppo locale:

  • tutelare il territorio e la sicurezza degli abitanti affidandogliene la cura
  • promuovere il policentrismo la diversità naturale, culturale e del paesaggio
  • rilanciare lo sviluppo e il lavoro attraverso l’uso di risorse potenziali poco o male utilizzate

Sappiamo che il tema della tutela del territorio risulta oggi certamente inadeguato. Basti solo ricordare le vicende tragiche delle alluvioni e dei morti di Capoterra e di Bitti dovuti anche a una deficitaria manutenzione del suolo. Ecco che diventa allora essenziale superare gli interventi sporadici ed emergenziali sui suoli e sulle risorse fisiche territoriali per concentrarsi su iniziative di rilievo strutturale. È ormai accertato che trascurare la manutenzione ordinaria degli invasi e corpi idrici, dei versanti, delle aree boschive e di quelle incolte non solo determina una perdita di occasioni di vita e di reddito ma è anche fonte di pericoli per la vita delle persone e di costi ingenti per gli interventi rimediali. La messa in sicurezza diventa efficiente e possibile solo quando viene effettuata o promossa o supportata da una popolazione residente nel territorio, che sia capace di rappresentare gli interessi collettivi e possa divenirne “custode”, anche perchè è quella che ne trae i maggiori vantaggi. Sotto il secondo profilo della fruizione del paesaggio, le aree interne della Sardegna presentano una straordinaria diversità climatica e naturale. A queste si unisce una straordinaria varietà di pratiche di coltivazione le quali, a loro volta, hanno favorito la diffusione e la sopravvivenza di importanti biodiversità. E sappiamo che in un mondo iperglobalizzato la diversità dei luoghi e il policentrismo assumono un ruolo crescente nelle opportunità di sviluppo. Sotto questo punto di vista, la presenza dei centenari nella cosiddetta blue zone, con popolazioni demograficamente assortite, anche nella semplice comunicazione, e garanzia di risultato.

Ma tutto ciò richiede anche un modello economico e sociale coeso, che sappia assorbire le inefficienze connesse alla diffusione di piccoli insediamenti e assicurare modelli di vita che siano competitivi rispetto a quelli offerti dalle città. In terzo luogo, la tutela delle aree interne e la promozione delle diversità possono offrire concrete opportunità di sviluppo a condizione, però che si aprano nuove opportunità. Ci si riferisce non solo agli obiettivi di crescita economica ma anche a quelli di inclusione sociale. Sarà possibile recuperare condizioni di vivibilità e di attrattività per le aree interne solo se la popolazione troverà attraente e conveniente vivere in questi territori. E questo sarà possibile se sarà possibile fruire di servizi di qualità. Sotto il profilo della connettività. E sotto il profilo formativo, sociale e sanitario. Tra i primi due obiettivi e questo terzo obiettivo esiste una relazione biunivoca. Una valorizzazione adeguata delle aree interne consente nuove, significative opportunità di produzione e di lavoro, così come un disegno efficiente delle piattaforme dello stato sociale consente migliori servizi per tutti e quindi assicura maggiore attrattività dei luoghi. Una strategia che miri a questi tre obiettivi deve essere concettualmente robusta e condivisa, ma non deve costituire una gabbia.

In Sardegna l’obiettivo potrà essere raggiunto se si sarà capaci di imprimere una svolta decisa nella politica di gestione delle terre pubbliche. E ciò comporta principalmente la necessità di dare maggiore forza, riconoscimento e propulsione alle buone pratiche già in corso, che non sono poche. Significa anche introdurre innovazioni nell’offerta locale di servizi che sono indispensabili requisiti di cittadinanza. Significa aprire varchi alle energie umane innovative nell’utilizzo dei beni comuni, specie dove oggi predominano rendita e miope conservazione. Significa infine promuovere l’attività agricola, anche facendo leva sulle innovazioni delle cosiddette “condizionalità rafforzate”, al “greening”, e alla valorizzazione di zone di particolare interesse paesaggistico non disgiunte da una loro tutela. Si aprono, dunque, spazi importanti per la nascita e lo sviluppo e di nuove imprese in tutte quelle attività di produzione e di servizio. La sfida si giocherà su questi versanti e sarà compito di una nuova politica illuminata ed efficace avere il coraggio e la forza di vincerla.

Cristiano Erriu

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